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EDITORIALE

Perchè votare un sindaco 5 Stelle a Fiumicino?

1) Per evitare che Fiumicino sia preda di "mazzettari" e costruttori senza scrupoli, in grado di rapinare verde e territorio ai cittadini, svalutando ulteriormente i loro immobili e creando caos, carenza di servizi (acqua, luce, gas, trasporti, sanità, ecc.), esclusivamente per loro lucro personale, con la scusa che "a scomputo degli oneri concessori, verrà realizzato un marciapiede e una piazzetta, che dopo sei mesi avranno già bisogno di lavori di restauro...

2) Perchè voglio essere governato da persone oneste e non da personaggi già indagati dalla magistratura oppure da persone dedite a cambiar bandiera, a secondo dell'aria che tira...

3) Perchè voglio vivere felice in un territorio che, se ben gestito,, potrebbe essere un paradiso e non terra di conquista per diavoli in terra...

4) Perchè sogno un paese pulito moralmente, privo di smog e inquinamento, dove animali e uomini si comprendano, dove il cittadino sia al centro di ogni decisione importante per il nostro futuro...

L’azione politica è sottoponibile al giudizio morale?

A differenza degli altri campi della condotta umana, nella sfera della politica il problema che è stato posto tradizionalmente non riguarda tanto quali siano le azioni moralmente lecite e rispettivamente illecite, ma se abbia un qualche senso porsi il problema della liceità o illiceità morale delle azioni politiche. Per fare un esempio che serve a far capire la differenza meglio che una lunga dissertazione, non c’è sistema morale che non contenga precetti riguardanti l’uso della violenza e della frode. Le due principali categorie di reati previste nei nostri codici penali sono i reati di violenza e di frode. In un celebre capitolo del Principe Machiavelli sostiene che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe. Ma il leone e la volpe sono il simbolo della forza e dell’astuzia.
Nei tempi moderni il più machiavellico degli scrittori politici, Vilfredo Pareto, e tra i machiavellici annoverato in un libro un tempo molto noto, anche se oggi passato di moda insieme col suo autore (mi riferisco a J. Burnham, 1947), sostiene tranquillamente che i politici sono di due categorie, quelli in cui prevale l’istinto della persistenza degli aggregati, e sono i machiavellici leoni, e quelli in cui prevale l’istinto delle combinazioni, e sono le machiavelliche volpi. In una celebre pagina Croce, ammiratore di Machiavelli e di Marx per la loro concezione realistica della politica, svolge il tema dell’«onestà politica», cominciando il discorso con queste parole che non hanno bisogno di commento: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica». Dopo aver detto che si tratta dell’ideale che canta nell’animo di tutti gl’imbecilli spiega che «l’onestà politica non è altro che la capacità politica» (B. Croce, 1945, p. 105). La quale, aggiungiamo noi, è quella che Machiavelli chiamava «virtù», che, come tutti sanno, non ha niente a che vedere con la virtù di cui si parla nei trattati di morale, a cominciare dall’Etica nicomachea di Aristotele.
Da questi esempi che si potrebbero moltiplicare sembrerebbe non potersi trarre altra conclusione che quella della impossibilità di porre il problema dei rapporti tra morale e politica negli stessi termini in cui si pone nelle altre sfere della condotta umana. Non già che non vi siano state teorie che hanno sostenuto la tesi contraria, la tesi cioè che anche la politica sottostà o meglio deve sottostare alla legge morale, ma non hanno mai potuto affermarsi con argomenti molto convincenti e sono state considerate tanto nobili quanto inutili.
Ne ricordo soprattutto due, esemplari per l’autorità, non solo filosofica ma morale, dei loro autori, rappresentanti insigni, rispettivamente, di due concezioni morali fondamentali nella storia della filosofia moderna, la concezione cristiana e quella razionalistica. Nella’Educazione del principe cristiano, Erasmo sostiene la tesi che non vi è né vi può essere nessun contrasto fra morale e politica perché il principe deve comportarsi da buon cristiano e le virtù del buon principe sono le virtù morali classiche, proprio il contrario della virtù machiavellica (o paretiana o crociana), quali la magnanimità, la temperanza, l’onestà. Rivolto al principe che egli intende educare avviandolo su una strada che è l’opposto di quella tracciata da Machiavelli (destinata ad aver ben maggior fortuna), egli scrive: «Se vorrai entrare in gara con altri prìncipi, non ritenere di averli vinti perché hai tolto loro parte del dominio. Li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro, arrogante, iracondo, precipitoso di loro» (Erasmo da Rotterdam, 1977, p. 65).
Nell’appendice a quell’aureo libro che è Per la pace perpetua, Kant distingue il moralista politico che condanna dal politico morale che esalta. Il politico morale è colui che non subordina la morale alle esigenze della politica ma interpreta i princìpi della prudenza politica in modo da farli coesistere con la morale: «Sebbene la massima “L’onestà è la migliore politica”, implichi una teoria che la pratica purtroppo assai spesso smentisce, la massima parimenti teoretica “L’onestà è migliore di ogni politica”, è tuttavia infinitamente superiore a ogni obiezione e costituisce anzi la condizione indispensabile della politica» (I. Kant, 1985, p. 28). Per uno studioso di morale può essere interessante sapere che tanto Erasmo quanto Kant, pur partendo da teorie morali, intendo sul fondamento della morale, diverse, ricorrono, allo scopo di sostenere la loro tesi, allo stesso argomento, che nella teoria etica di oggi si chiamerebbe «consequenzialista», vale a dire che tiene conto delle conseguenze. Contrariamente a ciò che affermano i machiavellici, per cui l’inosservanza delle regole morali correnti è la condizione per aver successo, i nostri due autori sostengono che alla lunga il successo arride al sovrano rispettoso dei princìpi della morale universale. È come dire: «Fai il bene, perché questo è il tuo dovere; ma anche indipendentemente dalle tue intenzioni, la tua azione sarà premiata». Si tratta, come ognun vede, di un argomento pedagogico molto comune, ma non di grande forza persuasiva. Diciamolo pure: è un argomento debole che non è suffragato né dalla storia né dall’esperienza comune.

Norberto Bobbio - Etica e politica

Dei furbi e dei fessi

  • I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi.

  • Non c'è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente sulla magistratura, nella pubblica istruzione, ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. – questi è un fesso.

  • I furbi non usano mai parole chiare. I fessi qualche volta.

  • Non bisogna confondere il furbo con l'intelligente. L'intelligente è spesso un fesso anche lui.

  • Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle.

  • Colui che sa è un fesso. Colui che riesce senza sapere è un furbo.

  • Segni distintivi del furbo: pelliccia, automobile, teatro, restaurant, donne.

  • I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini.

  • Dovere: è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro.

  • L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono.

  • Il fesso, in generale, è stupido. Se non fosse stupido, avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo.

  • Il fesso, in generale, è incolto per stupidaggine. Se non fosse stupido, capirebbe il valore della cultura per cacciare i furbi.

  • Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandare via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono.

  • Per andare avanti ci sono due sistemi. Uno è buono, ma l'altro è migliore. Il primo è leccare i furbi. Ma riesce meglio il secondo che consiste nel far loro paura: 1) perché non c'è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere; 2) perché non c'è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e l'associazione con altri briganti alla guerra contro questi.

  • Il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo sopratutto a quello della distribuzione.

  • L'Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l'italiano in generale ha della furbizia stessa, alla quale principalmente fa appello per la riscossa e per la vendetta. Nella famiglia, nella scuola, nelle carriere, l'esempio e la dottrina corrente – che non si trova nei libri – insegnano i sistemi della furbizia. La vittima si lamenta della furbizia che l'ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un'altra occasione. La diffidenza degli umili che si riscontra in quasi tutta l'Italia, è appunto l'effetto di un secolare dominio dei furbi, contro i quali la corbelleria dei più si è andata corazzando di una corteccia di silenzio e di ottuso sospetto, non sufficiente, però, a porli al riparo delle sempre nuove scaltrezze di quelli.

Giuseppe Prezzolini - Codice della vita italiana

 

 

Il diritto di avere diritti

È proprio la questione della democrazia a intrecciarsi continuamente con quella dei diritti. I diritti contro la democrazia, quando il loro carattere «fondamentale» li vuole sottratti alla logica del principio di maggioranza, e così colpisce al cuore la stessa sovranità popolare? I diritti contro la democrazia, quando la loro effettività, e le modalità stesse del loro riconoscimento, vengono sempre più ampiamente affidate ai giudici e sottratte al legislatore, alterando l’equilibrio tra i poteri?
     La diffidenza per i diritti, per l’incapacità della loro grammatica di comprendere il mondo, per la loro insaziabilità che erode spazi politici e sociali, non è nuova. Ma libertà e diritti accompagnano la nascita del cittadino moderno, definiscono un ordine politico e simbolico interamente nuovo. Tra resistenze ed esitazioni, certamente: i nostalgici e i teorizzatori d’ogni ordine comunitario o gerarchico li respingono; e una ripulsa, sia pure ben diversamente connotata, viene da chi professa un realismo politico senza scorie, e perciò aborre la signoria degli «pseudoconcetti» giuridici e mette in guardia contro le seduzioni delle dichiarazioni dei diritti. Malgrado ciò, essi sono divenuti il connotato d’una età, appunto «l’età dei diritti»56; le definizioni non ci parlano soltanto di uno «Stato di diritto», bensì di uno «Stato dei diritti»; l’istituzione di uno «spazio dei diritti» individua un connotato essenziale dello Stato costituzionale57; e la fondazione stessa della democrazia, dopo il discredito caduto sulla sovranità popolare per l’esperienza delle democrazie «popolari», dovrebbe ormai essere cercata soltanto nella categoria dei diritti fondamentali dell’uomo58. La dimensione dei diritti, però, ci appare al tempo stesso fondativa e fragilissima, perennemente insidiata da restaurazioni e repressioni, tese a cancellare o limitare proprio l’insieme degli strumenti che dovrebbero garantire al cittadino le massime possibilità di sviluppo autonomo.
     Torna così l’interrogativo radicale. L’età dei diritti è al tramonto? Questo sarebbe l’esito di un processo in cui si congiungono pretese ideologiche e inflazione delle situazioni garantite, estrema individualizzazione delle tutele e erosione della sfera pubblica. Che cosa, però, al posto dei diritti? Qui le risposte si diversificano, si fanno ingenue o prepotenti, nostalgiche o culturalmente regressive. È ingenua, e per molti versi sorprendente, la tesi che vede i diritti inservibili in un mondo ormai prigioniero della logica economica. E se fosse vero il contrario, che proprio la pretesa di ridurre tutto all’economico può trovare solo in una reinventata dimensione dei diritti l’unico possibile contrappeso, anzi la via per contestare la legittimità stessa di quel riduzionismo? Ma parlare di «reinvenzione» non è già un ammettere che quella tradizione dei diritti è divenuta inadeguata, per non dire inservibile, nel tempo che stiamo vivendo e nel futuro che si annuncia?
     Una osservazione della realtà ci porta in una direzione diversa. Quella reinvenzione è già in corso, e a essa si oppone una coalizione singolare tra chi vuol cogliere l’occasione per liberarsi finalmente dal peso dei diritti e chi pensa di poterli ancora difendere chiudendosi nella loro antica cittadella. Vale, allora, la riflessione storica, che induce a concludere che non di un’unica età dei diritti dobbiamo parlare, ma di età dei diritti al plurale, e non solo in senso diacronico, ma pure sincronico. Sappiamo che l’invenzione dei diritti appartiene alla modernità occidentale, che stretta è la sua connessione con le rivendicazioni individualiste e proprietarie della borghesia vittoriosa, che l’evoluzione successiva, sul continente europeo soprattutto, invece è tutta legata all’irruzione di un altro soggetto, la classe operaia, che impone la modifica del quadro costituzionale, conduce addirittura verso una nuova forma di Stato che, per il ruolo assunto dai diritti sociali, si conviene di definire «Welfare State», «Stato sociale», «Sozialstaat», «État-providence». Nella modernità, dunque, insediamento e forza dei diritti sono parte integrante della vicenda dei «soggetti storici» della trasformazione politica, economica, sociale, che proprio ai diritti affidano l’innovazione e il suo consolidamento.
     Ma che cosa accade quando quei soggetti si trasformano, mutano ruolo e funzione, non sono più quelli che danno il tono al tempo vissuto? Quando è il volto anonimo dell’economia a identificare i tratti del mondo globale, quando si insiste sul fatto che i mercati «votano» e le istituzioni finanziarie «giudicano», e quindi si appropriano di funzioni che appartengono alla democrazia e sembrano ridurre all’unica loro misura tutti i diritti? Quando la tecnologia spinge verso le frontiere del post-umano, e quindi immediatamente ci si domanda se davvero possano sopravvivere diritti non a caso definiti, anche nel linguaggio giuridico, «umani»?
     Una risposta complessiva potrebbe essere affidata alla constatazione che i diritti si sono in qualche modo separati dalla vicenda storica della modernità, l’hanno attraversata trovando una legittimazione senza precedenti, manifestano una loro piena autonomia, quasi una imbarazzante autofondazione. Oggi sarebbero in condizione di proseguire il loro cammino senza riferimenti al loro stesso passato, che esprimeva in qualche modo una loro parzialità sociale, raggiungendo così quella universalità che prima poteva essere considerata piuttosto come l’effetto di una imposizione, di una prepotenza anche ideologica. I diritti come «patrimonio comune dell’umanità»?
     Compare così un nuovo soggetto, con l’ambizione di tutto unire, e tuttavia portatore di nuovi dubbi e di latenti ambiguità. La prima questione, ovvia, riguarda chi è legittimato a parlare ed agire in nome dell’umanità. Se essa è presentata come il nuovo soggetto storico, questa impostazione non sfugge al rischio di farsi piuttosto espressione d’una partita di potere, dove la forza diviene l’unica via per selezionare chi può stabilire (imporre?) le regole necessarie perché sia soddisfatta la condizione dell’universale, come ci insegna in primo luogo la vicenda, anche semantica, della «guerra umanitaria». Se, invece, in nome dell’umanità sono legittimati a parlare ed agire tutti e nessuno, il problema diviene quello della frammentazione, e la narrazione dei diritti corre il rischio di perdersi nella babele dei linguaggi.

Stefano Rodotà

La società sotto assedio

Avendo spogliato lo stato di buona parte dei suoi vecchi poteri, la globalizzazione getta un enorme punto interrogativo sui benefici che i due partner possono ottenere dal loro matrimonio di convenienza. Oggi infatti è molto meno chiaro di prima, e di certo non è più ovvio come in passato, cosa una comunità immaginata abbia da guadagnare (a parte, ovviamente, le insegne in gran parte simboliche di una identità separata, ottenibili in molti altri modi) da un'unione finchè morte non ci separi con una, e solo una, unità politica. L'essere "connessi" a una rete di forze globali può essere un passo rischioso ma anche più promettente, poichè offre maggiori opportunità e molto più spazio di manovra.
In un mondo di coalizioni fluide o temporanee (dominate, come ha sostenuto Paul Virilio, dall'estetica della sparizione), legami duraturi e indistruttibili avvolti in una fitta rete di istituzioni trasmettono incertezza sul proprio destino anzichè sicurezza del proprio status. Questo vale per tutte le unioni, in quanto l'endemica volatilità dei legami rende fragile e transitoria la convenienza nel cui nome le unioni vengono formate. Esiste tuttavia un motivo tutto speciale per cui l'unione ortodossa tra stato e nazione è destinata a perdere buona parte del suo antico fascino.
Avendo "appaltato" molte delle sue principali funzioni (economiche, culturali, e in misura sempre maggiore anche sociali e biopolitiche) a forze di mercato palesemente non politiche e "deregolamentate", lo stato ha un bisogno solo limitato e poco più che occasionale dello straordinario potenziale di mobilitazione grazie al quale le nazioni erano in passato sue cos ben accette e spesso indispensabili compagne nella lotta per l'acquisizione di legittimità. Gran parte delle funzioni restanti vengono perseguite da unità professionali selezionate, protette da accesso limitato e da atti segreti ufficiali. La coscrizione di massa e il suo necessario corollario - la mobilitazione del sentimento popolare - sono definitivamente escluse.
D'altro canto, l'emaciata sovranità e i fatiscenti poteri dello stato con cui in passato ha sviluppato una "relazione speciale" privano l'identit… nazionale della sua posizione di privilegio tra le comunit… immaginate, che potrebbe servire da punto d'incontro per interessi diversi e diffusi e come luogo per il loro coagularsi in forze politiche. Per quanto concerne la solidit… delle fondamenta istituzionali, il vantaggio della nazione rispetto alle sue potenziali alternative, quali ad esempio etnie o comunit… immaginate intessute di differenze religiose, linguistiche, culturali, territoriali o sessuali, è stato considerevolmente ridotto.
In conseguenza di tutto ciò, la sociologia si è venuta a trovare - al pari della società, il suo tradizionale oggetto di studio, anche se per motivi diversi - in un doppio vincolo: "ha perso in un sol colpo il suo oggetto naturale (naturalizzato) e il suo cliente più ovvio". Via via che lo stato ha abbandonato la rivendicazione del monopolio sulla coercizione legittima, e via via che la coercizione amministrata dallo stato ha perso il suo rango privilegiato tra le tante coercizioni con diverso, ma essenzialmente contestato, livello di legittimità che operano nei due distinti ma interdipendenti campi di battaglia del cyberspazio e della politica della vita, l'identificazione tra "società" e stato nazionale ha perso buona parte della sua passata evidenza. In realt…, altrettanto ha fatto l'identificazione tra "società" e qualsiasi serie di "strutture", complesse probabilmente, ma coerenti. Oggi occorre un enorme sforzo di immaginazione per visualizzare la "realtà sociale" come amministrata e gestita da tangibili entità fisiche o da loro evanescenti repliche, quali ad esempio le "sindromi dei valori" o "l'ethos della cultura". Il tracciare confini di "totalità" autosufficienti e autonome che renderebbero plausibile postulare tali serie di strutture è qualcosa che va al di là dell'immaginazione.

Zygmunt Bauman

LA POVERTÀ A FIUMICINO

Secondo l'Ufficio Statistico dell'Unione Europea, l'Italia è il paese che ha più poveri in Europa, il dato è sicuramente preoccupante e lo è ancora di più per il comune di Fiumicino. I nuovi canditati alla carica di sindaco ci fanno sapere, attraverso i loro manifesti elettorali, che solo nel comune di Fiumicino abbiamo altre 3000 nuove famiglie assistite, oltre a quelle precedentemente segnalate. Sono in particolare aumento le famiglie italiane con gravi problemi economici, e se volete sapere se anche il vostro nucleo familiare rientra in questa possibilità, vi basterà rispondere a queste semplici domande. Siete in grado di affrontare spese impreviste? Vi potete permettere una settimana di vacanza annuale fuori di casa? Siete in arretrato con mutui, affitti, utenze oppure rate di acquisto? Siete in grado di permettervi un pasto con carne, pollo o pesce o equivalente vegetariano ogni secondo giorno? Riuscite a mantenere la propria casa adeguatamente calda? Utilizzate una macchina o un furgone per uso personale? Siete in grado di sostituire i mobili logori? Cambiate i vestiti vecchi con alcuni nuovi? Indossate sempre scarpe adeguate? Riuscite a spendere una piccola somma di denaro ogni settimana per voi stessi? Avete attività ricreative regolari? Uscite con amici o familiari per un pranzo o una cena almeno una volta al mese? Possedete un computer e una connessione Internet? Alcuni di questi interrogativi vi potranno sembrare ambigui, ma sono l’ago della bilancia, per comprendere che diciotto milioni di italiani sono a rischio povertà o esclusione sociale, perché hanno risposto NO ad almeno cinque delle domande. In pratica il 30% della popolazione residente in Italia si trova in difficoltà, se questi dati fossero esatti, nel comune di Fiumicino avremmo circa 24.000 cittadini in procinto di saltare quella oscura e sottile linea, che divide la prosperità dalla povertà. Pensate che questi cittadini abbiano la possibilità di farsi rappresentare nel futuro consiglio comunale di Fiumicino? Quanti sono, secondo voi, i consiglieri e gli assessori comunali, sindaco compreso, in grado di rispondere NO alle domande sopra elencate? Probabilmente nessuno, certamente non è segno di distinzione essere povero, ma chi ha la fortuna per merito o discendenza di essere ricco, dovrebbe per generosità, senso morale e dovere civico, farsi carico di rappresentare anche le fasce più deboli, compresi i poveri, i bambini e gli anziani. La coalizione del centrodestra, la Lega e il PD sono forze che hanno avuto la possibilità di governare sia a livello nazionale sia a livello locale. Sono loro che ci fanno sapere che hanno potenziato le piste ciclabili con 22 nuovi chilometri (superiore è il numero di ciclisti morti o che hanno subito incidenti negli ultimi cinque anni), che hanno aumentato la raccolta della differenziata dell'80% (prima non esisteva e c’era meno inquinamento e meno tumori), che hanno recuperato 17 milioni di evasione fiscale senza aumentare le tasse comunali (amplificando il carico fiscale nei confronti dei piccoli proprietari di terreni edificabili ma vincolati), che hanno arricchito di 23 aule le scuole del territorio (mettendo in pericolo di perdita del lavoro 50 maestre), organizzando 2000 iniziative culturali (senza essere riusciti a creare un museo etrusco - romano stabile oppure un teatro comunale), rilanciando i matrimoni e le unioni civili sulla spiaggia (prima ci si poteva sposare in chiesa o al comune). Nessuno della vecchia guardia parla della povertà morale ed economica degli abitanti del comune di Fiumicino, forse perché prevedono che proprio le fasce più deboli non andranno a votare. Il 10 giugno si terranno le elezioni comunali 2018, toccherà quindi a ciascuno di noi farsi carico di una scelta ben precisa, se continuare a dar fiducia agli abituali volti, ai soliti intrallazzatori e speculatori oppure tentare di rinnovare il sistema politico del comune di Fiumicino. Non è possibile prevedere cosa avverrà alle prossime elezioni comunali, certo è che, se il voto politico sarà confermato, a Fiumicino esiste la possibilità che il Movimento 5 Stelle possa eleggere un sindaco onesto e capace, ma il pericolo che gli interessi privati di costruttori e speculatori siano più forti e al di sopra di ogni interesse pubblico, rimane una costante della politica italiana. Volutamente non ho voluto fare i nomi dei politici interessati (ex democristiani, ex leghisti di Roma ladrona, ex comunisti), li troveremo scritti sulle schede elettorali, ciascuno barrerà il proprio simbolo e scriverà la sua preferenza, ma prima di farlo guardiamoci dentro, ascoltiamolo quel cuore che batte forte, cerchiamo di trovarlo il coraggio di rinnovare questo nostro paese, potrebbe essere la nostra ultima occasione prima di ammainare del tutto la bandiera dell’onestà e della moralità.

Riccardo Affinati

Il contratto sociale

L'uomo è nato libero e ovunque si trova in catene. Anche chi si crede il padrone degli altri non è meno schiavo di loro. Come si è prodotto questo cambiamento? Lo ignoro. Cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere tale problema.
Se non considerassi che la forza e l'effetto che ne deriva, direi: finché un Popolo è costretto a obbedire e obbedisce fa bene, appena può scuotere il giogo e lo scuote fa ancora meglio, giacché, recuperando la sua libertà per mezzo dello stesso diritto con cui gli è stata sottratta, o è autorizzato a riprendersela o nessuno lo era mai stato a togliergliela. D'altra parte l'ordine sociale è un diritto sacro, che serve da base a tutti gli altri.

Jean-Jacques Rousseau

LE SETTE ASSERZIONI PRINCIPALI

  1. Il mondo è tutto ciò che accade.

  2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

  3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.

  4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.

  5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.

  6. La forma generale della funzione di verità è: [p ¯, ξ ¯, N (ξ ¯ )]. Questa è la forma generale della proposizione.

  7. Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere.

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

Aldo Bozzi, deputato alla Costituente tra le fila dei liberali scrisse: “È quindi evidente che i ministri debbano avere la fiducia del Presidente del Consiglio, ed è da escludersi che il Capo dello Stato abbia il potere di rifiutarne la nomina”.

«Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere.»

Gaetano Salvemini

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